Il racconto di oggi parla di resilienza: in psicologia è definita come la capacità di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.
Questa “competenza” non è innata e nemmeno immutabile: si può allenare! Non esiste un unico modo di farlo uguale per tutti, proprio per questo invece di dirti cosa devi fare condivido una storia di resilienza, per trovare l’ispirazione…
Siamo in Giappone, a Hiroshima e Nagasaki, città ben note per essere state scelte come obiettivo nel lancio della bomba atomica. L’evento traumatico del racconto l’abbiamo individuato; i protagonisti, invece, non sono uomini ma piante.

Dal libro “L’incredibile viaggio delle piante” di Stefano Mancuso:
Ogni volta che il console parlava di Hibakujumoku, li definiva come “alberi che hanno subìto un’esplosione atomica”, e questa lunga circonlocuzione suonava buffa e stonava alquanto con la sua, per il resto perfetta, padronanza della nostra lingua. Così azzardai: “Mi scusi, console, perché continua a dire che gli Hibakujumoku sono ‘alberi che hanno subìto un’esplosione atomica’? Non sarebbe più semplice utilizzare una parola come ‘sopravvissuti’?
Ecco la sua spiegazione: “La questione è più complessa di quanto sembra, caro professore. Tutto nasce dal nome dato ai sopravvissuti, come dice lei, alla bomba. Il loro nome giapponese è hibakusha, letteralmente ‘persone esposte alla bomba’. C’è un motivo per questa scelta che può afferrare. Si scelse questo termine al posto di ‘sopravvissuti’ perché questa parola, esaltando chi era rimasto in vita, avrebbe inevitabilmente offeso i moltissimi morti di quella tragedia. Per conseguenza anche gli Hibakujumoku sono chiamati allo stesso modo. Immagino le sembri strano, ma le assicuro che ogni hibakusha è contento così e non avrebbe sopportato di essere chiamato ‘sopravvissuto’. Suggerii allora la parola “reduci” in italiano. Non la conosceva e gli piacque molto. “La ringrazio molto per avermela insegnata. Suona molto bene. Brindiamo ai nostri amici reduci”.
Usciti dal ristorante, insistetti per accompagnarlo a casa. Non li dimostrava affatto, ma il console aveva ampiamente superato gli ottanta e aveva bevuto molto. In ogni modo l’ebbi vinta io, e con una breve passeggiata l’accompagnai fin sotto casa. Ci salutammo. Contravvenendo ad ogni regola nipponica, in virtù dei suoi molti anni passati in Italia, il console mi abbracciò. Mi guardò serio in faccia e disse: “Parli degli Hibakujumoku, li faccia conoscere. E venga a trovarli ancora”. Poi si interruppe, indeciso: ” Bisogna che glielo dica. Anch’io sono un hibakusha. Avevo sette anni quando la bomba fece scomparire tutta la mia famiglia e chiunque conoscessi al mondo. Io e quattro miei compagni siamo gli unici reduci di quella scuola. Eravamo 120 bambini”.
Ci pensò un attimo, mi sorrise l’ultima volta e girandosi per entrare in casa mi ringraziò ancora per la compagnia.